Da https://www.articolo21.org/2020/05/pensare-il-teatro-al-tempo-del-coronavirus-tommaso-urselli-riscopre-artaud-e-neiwiller/ e https://www.rumorscena.com/author/tommaso-urselli

RUMOR(S)SCENA – TOMMASO URSELLI – MILANO –
di Tommaso Urselli
Una serie di appunti e riflessioni sparse, espresse in momenti diversi e differenti contesti social-virtuali come d’obbligo in questo strano periodo e che qui, grazie alla sollecitazione di Roberto Rinaldi, cerco di raccogliere, alla disperata ricerca di un filo… non certo di risposte, per lo meno di domande.
Sono drammaturgo e operatore sociale, vivo a Milano. All’inizio di questo lungo periodo – cui fa da sfondo lo slogan “Milano non si ferma” – i teatranti si chiedono perché i teatri dovrebbero fermarsi; d’altra parte, gli operatori sociali si chiedono perché i centri diurni per disabili restano aperti (mentre le scuole chiudono). Io, come teatrante/operatore sociale, cosa dovrei chiedermi?
Le domande sono tante.
A metà marzo chiudono i centri diurni: qualcuno ha capito che i disabili e gli operatori sociali non sono immuni? Mi rendo disponibile a far la spesa per chi non può farla.
Leggo su Doppiozero un personale contributo della drammaturga Lucia Calamaro https://www.doppiozero.com/materiali/il-presente: a mio parere un’intelligente e provocatoria autoanalisi che cerca di uscire dall’ambito dell’autoreferenzialità citando il fumettista Zerocalcare come esempio di chi riesce a trattare il tema del presente con approccio lucido – per quanto possibile in questo periodo –, ironico e disincantato. Un attimo dopo, leggo sui social la serie di polemiche che a quanto pare, invece, il suo scritto suscita. Ha toccato un nervo scoperto?
Su Facebook qualcuno mi invita a far parte di un gruppo virtuale di teatro. Penso possa essere un’occasione per riflettere, ristudiare insieme pagine di autori del presente e del passato tanto da offrire un punto di vista rispetto all’attuale situazione. Io propongo delle pagine da Antonin Artaud e da Antonio Neiwiller che stavo rileggendo in quei giorni; mi paiono illuminanti su questioni relative al teatro e alla cultura: mi viene risposto che si accettano per lo più testi scritti dalla stessa persona che li legge. Sembrerà strano: sono un drammaturgo ma non ho voglia, in questo periodo, di “produrre”; tanto meno di scrivere qualcosa per me stesso. Come mai per noi teatranti è così difficile prendersi tempo per riflettere, e così facile utilizzarlo per riflettersi? Così immediato produrre, e così poco immediato studiare?
Quello di cui sento il bisogno adesso è altro: non so precisamente cosa, ma sicuramente ha a che fare con la necessità di riflettere su come si possa insieme mantenere acceso e vivo, sotto le ceneri di questo strano tempo dilatato, il desiderio di teatro; con il credere che il teatro sia prima di tutto un momento di condivisione, fisica e non solo, tra persone compresenti in uno stesso luogo. Percepisco questo come bisogno primario: riprendere in mano l’abbecedario. Continuo a rileggere le pagine di Neiwiller, di Artaud.
“Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo fra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale, e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita…
La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame.
Abbiamo soprattutto bisogno di vivere, e di credere in ciò che ci fa vivere e che qualcosa ci fa vivere – ciò che proviene dal fondo misterioso di noi stessi non deve continuamente riversarsi su di noi in un travaglio volgarmente digestivo.
Voglio dire che se è essenziale per noi tutti mangiare subito, è per noi ancora più essenziale non dissipare nell’unica preoccupazione di mangiare subito la forza del semplice fatto di avere fame.”
(A. Artaud, Il teatro e il suo doppio)
Parole di un altro tempo, a mio avviso illuminanti anche per il nostro tempo. Suggeriscono in qualche modo l’idea che alcune grosse questioni intorno a cui ci si dibatte, certi consolidati meccanismi distorti, “patologici” – una certa tendenza all’autoreferenzialità e all’iperproduzione –, caratterizzino forse da sempre gli ambiti del teatro e della cultura; che magari agiscano solitamente in maniera più sotterranea e che ora, in tempi di crisi, di virus, tutto sia soltanto più evidente. Tutto può essere visto come ingrandito al microscopio, insieme al virus. E forse, per tutti questi virus che camminano a braccetto, non esiste antidoto migliore se non quello di riprendersi ogni tanto il tempo di riflettere, prima di produrre (in tempi di virus ma anche in tempi migliori).
“È tempo di mettersi in ascolto.
…
Ma la merce è merce,
e la sua legge sarà
sempre pronta a
cancellare
il lavoro di
chi ha trovato radici e
guarda lontano.
…
Bisogna liberarsi dall’oppressione
e riconciliarsi con il mistero.
Due sono le strade da percorrere,
due sono le forze da far coesistere.
La politica da sola è cieca.
Il mistero, che è muto,
da solo diventa sordo
…
È tempo che l’arte
trovi altre forme
per comunicare in un universo
in cui tutto è comunicazione.
…
Né un Dio,
né un’idea,
potranno salvarci
ma solo una relazione vitale.
Ci vuole
un altro sguardo…”
(A. Neiwiller, L’altro sguardo: per un teatro clandestino
Condivido questi materiali con qualcuno – la sola lettura non mi è sufficiente; il desiderio, la necessità di condivisione, resta; lo scambio e il confronto con i “compagni di banco” – conosciuti o sconosciuti (questa è una grande possibilità del virtuale) – rendono più vive le pagine dell’abbecedario. Li condivido con Franco Acquaviva, di cui leggo un bell’articolo su Pangea http://www.pangea.news/teatro-in-streaming-franco-acquaviva
E poi, le videoconferenze. Nel ciclo di dieci incontri sul Terzo Teatro, qualcuno dei partecipanti si interroga su cosa possa fare il teatro in questo periodo di pandemia: Eugenio Barba risponde come il training dell’attore dell’Odin Teatret sia sempre stato una sorta di apprendistato a resistere, che in questo momento specifico potrebbe concretamente tradursi nel mantenere vive le relazioni con le persone da noi ritenute importanti.
Ci sono gli scambi giornalieri con la Bottega dello Sguardo di Renata Molinari, che tiene le fila delle Cartoline di parole https://www.labottegadellosguardo.it/wp/progetti/cartoline-di-parole provenienti da tutta Italia (ora sono centinaia): ogni giorno ne scrivo una. La scrittura non come “produzione”, ma come arma per tenere viva la relazione con chi è lontano, e con me stesso: che, di questi tempi, non è sempre scontato. Complice la forzata reclusione, ricominciano e si fanno più intensi i contatti con l’Open Program del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, per cercare di portare finalmente a termine il progetto di libro sulla loro residenza, che qualche anno fa avevamo ideato e realizzato a Milano.
Mi sento spesso con Massimiliano Speziani, amico attore e compagno di collaborazioni: in questo periodo lui porta avanti una pratica quotidiana nell’androne del suo condominio, quindici minuti di condivisione di fiabe, racconti, poesie a salutare distanza di balcone; ma comunque in condivisione reale, fisica, umana con le persone che lo abitano. La vecchia pratica del teatro, insomma, che nessun virus potrà mai estirpare e nulla potrà mai surrogare. Gli racconto dei testi di Artaud e Neiwiller che sto rileggendo, di una poesia della Szymborska che mi ha colpito, di alcune mie piccole composizioni in versi in cui parlano gli oggetti (non so perché ma in questo periodo riesco a leggere, scrivere e pensare più in versi che in prosa). Parte di questo materiale finisce per entrare negli appuntamenti quotidiani di Massimiliano: non riesco a vederne gli esiti ma sono felice di aver in qualche modo partecipato a costruire, attraverso la vecchia pratica dello scambio di materiali drammaturgo-attore, un momento di vita di una piccola comunità come quella di un condominio, che ogni giorno per quindici minuti diventa teatro.
Mi sembra questo uno dei modi possibili per continuare a fare teatro e a raccontarlo: sarebbe bello che quest’azione si moltiplicasse nella città, una città di condomini-teatro.
Un’altra azione che restituisce dignità al teatro e a chi ci lavora, mi pare quella di sottolinearne l’assenza e quanto ci manca in dimensioni più estese, come ho visto fare a Marta Comerio e altri per il gruppo Attori e attrici uniti in un breve video-documento: l’inizio sembra annunciare l’imminente lettura de L’infinito di Leopardi ma l’attrice resta muta per tutto il tempo, e chi guarda il video deve confrontarsi con questa scritta:
“Lettura da L’infinito
di Giacomo Leopardi
APRITE BENE LE ORECCHIE!
Nelle decisioni, o non-decisioni, che il Mibact
sta prendendo, le lavoratrici e i lavoratori dello
spettacolo non hanno voce in capitolo. Nel
frattempo il Ministero ci chiede di usare
proprio la voce per creare contributi gratuiti
da condividere –
Ma se non abbiamo voce in capitolo per
DIALOGARE sul nostro futuro, non ce
l’abbiamo neppure per raccontare la bellezza.
@AttriciAttoriUniti”